Nell’Italia degli anni ’60 la plastica era sinonimo di progresso e la sua diffusione procedette rapidamente fino ai livelli odierni. Tuttavia, molto è cambiato: un uso eccessivo ed incontrollato della plastica ha difatti contribuito ad aumentare enormemente i livelli di inquinamento planetari, rimettendo in discussione tutto ciò che ha a che fare con lo sviluppo e l’industrializzazione. La plastica è divenuta nel giro di 60 anni, da aiuto imprescindibile delle massaie a nemico pubblico numero uno del mondo intero.
La sua produzione e lavorazione è estremamente inquinante, a partire dall’estrazione della materia prima, il petrolio appunto, fino al suo smaltimento, caratteristiche poco lusinghiere che hanno fatto emergere un serio dibattito internazionale su quale debba essere il suo destino. Negli ultimi decenni, numerose situazioni al limite della catastrofe hanno spinto la Comunità Internazionale a mettere seriamente in discussione l’uso di questo derivato del petrolio: dalle isole di rifiuti galleggianti negli oceani, composte quasi esclusivamente da plastica, la più conosciuta è il Pacific Trash Vortex nell’Oceano Pacifico, ai livelli agghiaccianti di inquinamento di alcuni grandi fiumi, come il Gange o il Fiume Azzurro, fino alle sterminate discariche site in Paesi del III Mondo.
Il divieto delle plastiche monouso 2021
Per cercare di cominciare ad arginare i danni che l’abbandono delle plastiche nell’ambiente sommato ad un utilizzo poco attento delle stesse, molti Paesi hanno approntato una serie di limitazioni alla produzione ed all’uso delle plastiche. Per quanto riguarda l’Unione Europea, il Parlamento Europeo, con un comunicato stampa del 27/3/2019, ha disposto il divieto di utilizzo delle plastiche monouso a partire dal 2021. Tra i prodotti interessati al divieto di produzione e vendita troviamo: posate monouso in plastica (forchette, coltelli, cucchiai e bacchette), piastre in plastica monouso, cannucce in plastica, germogli di cotone in plastica, aste di supporto per palloncini, prodotti realizzati con materiali oxo degradabili come sacchetti o imballaggi e contenitori per fast food in polistirolo espanso.
Inoltre gli Stati membri dovranno raccogliere separatamente il 90% delle bottiglie di plastica entro il 2029. Sono stati altresì fissati obiettivi vincolanti del 25% entro il 2025 e del 30% entro il 2030 per il contenuto di plastica riciclata delle bottiglie.
Il principio “chi inquina paga”, in particolare per il tabacco, sarà rafforzato dall’introduzione di una responsabilità estesa del produttore (che impone agli stessi di contribuire a coprire i costi di gestione dei rifiuti, pulizia e sensibilizzazione). Tale regime si applicherà anche agli attrezzi da pesca per garantire che i produttori, e non i pescatori, sostengano i costi della raccolta delle reti perse in mare.
Infine, la legislazione prevederà l’etichettatura obbligatoria dell’impatto ambientale negativo dei mozziconi di sigarette scartati con filtri in plastica e altri prodotti come bicchieri di plastica, salviette umidificate e assorbenti igienici.
Secondo i promotori, questa legislazione dovrebbe ridurre il costo dei danni ambientali di 22 miliardi di euro. Questi sono i costi stimati dell’inquinamento da plastica in Europa fino al 2030. L’Europa dispone ora di un quadro giuridico da difendere e promuovere a livello internazionale, data la natura planetaria del problema dell’inquinamento da plastica marina.
La “bugia” delle “bio”-plastiche attuali (che non sono biodegradabili)
La ricerca per trovare surrogati della plastica di origine petrolifera è andata avanti e dagli anni ’80 in poi, molte soluzioni sono state proposte: dalle plastiche di origine vegetale (mais, grano, patate, grassi vegetali, eccetera), alle bioplastiche.
Già la definizione stessa di bioplastica è estremamente difforme e soggetta ad importanti differenze: per European Bioplastics è una plastica che PUÒ essere biodegradabile, a base biologica o possedere entrambe le caratteristiche mentre per Assobioplastiche è una plastica sia di origine vegetale che FOSSILE che ha la caratteristica di essere biodegradabile e compostabile.
A ciò si aggiunge una legiferazione assente o manchevole che non aiuta nello stabilire cosa può essere definito biodegradabile e cosa no. Per assurdo, anche il concetto stesso di biodegradabilità è giuridicamente poco chiaro, sebbene Madre Natura conosca perfettamente le il significato di questa parola: molte plastiche vengono considerate biodegradabili nonostante questa loro caratteristica si manifesti solo in determinate condizioni di temperatura e pressione non presenti in natura.
Molti test, difatti, vengono svolti in impianti di compostaggio industriale con temperature, umidità e areazione costante: ciò permette una degradazione rapida e a norma di legge, in sicurezza riguardo alle possibili interazioni transitorie con animali o altro, ma questi sono presupposti che non esistono né sul terreno, né tantomeno in acqua.
L’acqua, appunto, è un ambiente completamente diverso dal nostro: pressione e densità diverse ma soprattutto, assenza di aria. E questo non è da sottovalutare: i tempi e i modi di degradazione di una plastica, tradizionale o bio- che sia, in ambiente marino differisce per tempi e modalità, rendendo ancor più lungo il processo e complicato trovare una quadra.
Le bioplastiche, inoltre, possono avere base biologica ma la loro composizione può essere soltanto parzialmente originata da biomassa, mentre il resto sarebbe comunque di origine fossile, seppur in percentuali diverse da Paese a Paese. Senza inoltrarsi in dettagli tecnici molto complessi ed estremamente variabili per la continua ricerca, si può comunque dire che tra le innumerevoli tipologie di bioplastiche è necessario fare dei distinguo: alcune, di origine sia biologica che fossile (le cosiddette plastiche vegetali), non sono biodegradabili, altre di origine completamente fossile (con tutte le problematiche che ciò comporta) combinate con polimeri di origine biologica sono 100% biodegradabili, ma quasi tutte con tempi biblici, mentre bioplastiche a base biologica, come alcuni tipi di polimeri derivati dalla canapa, sono completamente biodegradabili, ma soltanto in appositi impianti di compostaggio.
Quest’ultimo dettaglio è molto importante: senza degli impianti all’uopo destinati, anche le poche plastiche biodegradabili e compostabili finiscono nel sistema di riciclo della plastica tradizionale, o peggio, in dannosi inceneritori. A titolo esemplificativo, i sacchetti compostabili sono sufficientemente sottili da poter essere utilizzati anche in piccoli impianti di compostaggio casalinghi ma altri prodotti, no: si pensi a piatti o posate in bioplastica che risultano essere troppo grandi e con tempi di degradazione troppo lunghi in ambienti non controllati.
Anche produrre le bioplastiche risulta essere un notevole impegno economico, senza dimenticare che utilizzare terreni per produrre la parte vegetale da utilizzare nella produzione toglierebbe spazio al già disastrato comparto agricolo, senza contare l’uso di pesticidi e sostanze chimiche che vengono utilizzate, rendendo il tutto una sterilizzante coltura intensiva.
Le vere bioplastiche fatte di canapa
Tra tutte le possibili soluzioni del problema plastica una sembra essere particolarmente interessante, ed è l’utilizzo degli scarti della canapa industriale per produrre plastiche completamente biodegradabili. La canapa industriale, difatti, è quella che offre le migliori garanzie di resa e di utilizzo: può essere coltivata ovunque ci sia acqua, ne consuma molto poca, non necessita di sostanze chimiche che ne favoriscano la crescita, arricchisce il terreno e già adesso i suoi scarti di lavorazione sono la base per un polimero di bioplastica completamente biodegradabile, prodotto in Italia con brevetto assolutamente italiano, utilizzato nelle stampanti 3D ma pronto per essere il protagonista in molti altri ambiti. Esso è molto simile all’acido polialttico (PLA) che è un polimero sintetizzato da basi naturali (mais, patate, grano) utilizzato per piatti e posate monouso in plastica.
Sembrerebbe proprio che in casa nostra si sia riusciti a trovare la chiave di volta per proporre una valida alternativa alla plastica di origine petrolifera realizzando, al contempo, una economia circolare virtuosa vera e propria, che aiuterebbe tutti i comparti produttivi del Paese e proponendosi in maniera dirompente anche nel mercato planetario: ma c’è un però.
Un però che ha un peso specifico tutt’altro che indifferente: mancano gli impianti di trasformazione. Ogni materia prima per essere trasformata in qualcos’altro necessita di procedimenti specifici svolti in particolari impianti, e la canapa non fa eccezione: in Italia questi impianti sono pochissimi e non potrebbero garantire, da soli, la quantità di prodotto necessario ad esser poi utilizzato negli ambiti più svariati, al contrario di adesso, dove la canapa industriale e i suoi derivati sono praticamente prodotti di nicchia.
In un Paese storicamente manifatturiero come l’Italia, risulta quindi fondamentale avere a disposizione tutti gli strumenti e le infrastrutture indispensabili per la lavorazione della materia prima ma, tra tutti i vari ostacoli, siano essi normativi, logistici ed amministrativi, quello più insormontabile è quello economico: un impianto di trasformazione per la plastica di canapa può venire a costare anche 50 milioni di euro. Una cifra davvero notevole e difficilmente raggiungibile per un privato imprenditore, ma non per lo Stato, che potrebbe investire una cifra quasi irrisoria se paragonata ad un bilancio statale, ma che consentirebbe di far decollare un intero settore, con tutti i benefici in termini di resa economica, di posti di lavoro e di benessere diffuso. Una sfida importante che l’Italia ha tutte le carte in regola per vincere.
Considerazioni finali
Tuttavia senza una presa di coscienza che il paradigma economico e sociale debba essere radicalmente modificato, nessun problema troverà mai una efficace risoluzione. Innanzitutto il riciclo non è eterno: una bottiglia di plastica può essere riciclata un numero limitato di volte, ed ogni volta si perde parte della massa originaria, tale procedimento ha un suo costo economico e una sua difficoltà logistica di realizzazione. La tentazione di gettare tutto dentro un inceneritore diventa molto forte e i danni alla salute sono notevolissimi.
Da profani forse la prima cosa da fare è limitare al necessario l’uso della plastica in generale, senza che questo significhi tornare al Pleistocene: molti altri materiali sono stati utilizzati nella Storia prima della plastica, a partire dall’inerte per eccellenza, il vetro.
Insomma, la guerra contro l’inquinamento da plastica, iniziata alcuni anni fa, è ben lungi dall’essere vinta, sebbene molti indizi sembrino indicarci la strada per la sua sconfitta definitiva.
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