Tutto molto complicato.
L’oramai arcinota sentenza del 30 maggio scorso ha scombussolato tutto l’ambiente della commercializzazione della cannabis light, creando un clima di incertezza totale, sommata a disagi creati, loro malgrado, dalle Forze dell’Ordine, costrette ad operare in condizioni di poca chiarezza.
Ebbene, le motivazioni di tale sentenza sono ancora più complesse della sentenza stessa e le conseguenze non tarderanno a palesarsi.
Viene, innanzitutto, ribadito l’impianto del Testo Unico sugli Stupefacenti del 1990, nel quale viene ricompresa la cannabis e tutti i suoi derivati: non c’è esenzione tramite la legge 242/16 rispetto al livello di THC contenuto nella stessa.
La commercializzazione di foglie, semi, resine o infiorescenze non è consentita, indipendentemente dalla percentuale di principio attivo in essa presente: non è più il THC il fulcro della questione ma la cosiddetta “offensività“.
In pratica bisognerà, di caso in caso, stabilire se il derivato in questione ha o meno concreta efficacia drogante e regolarsi di conseguenza: qualora tale efficacia drogante non fosse dimostrata, sarebbe possibile commercializzare il prodotto senza incorrere in alcun reato.
Ciò pone i giudici di fronte ad una estrema discrezionalità oltre che ad un lavoro ciclopico; innanzitutto non c’è una regola di base per decidere inequivocabilmente se e quando porre in essere l’azione giudiziaria e in caso di incardinamento di un procedimento penale, si dovrà mettere in campo tecnici e periti di parte per controllare e confutare rispetto all’offensività del prodotto sequestrato. A parità di situazioni si potrebbero avere sentenze di carattere opposto.
A ciò è da aggiungersi anche l’evidente difficoltà in cui si troveranno a svolgere servizio le Forze dell’Ordine, costrette a muoversi in un contesto piuttosto confuso e a sequestrare materiale o prodotti in attesa che specialisti di entrambe le parti appurino l’offensività delle stesse.
Inoltre tutti coloro che avevano intrapreso l’attività o che erano stati indagati precedentemente alla sentenza, dovranno necessariamente essere oggetto di una richiesta di archiviazione, in quanto il vuoto normativo era tale da non consentire una scelta chiara.
Tutto questo arzigogolo legislativo non colpirà fortunatamente le realtà produttive ed i coltivatori diretti di canapa: essi, infatti, ricadono sotto la tutela della legge 242/16 la quale stabilisce la soglia dello 0,6% di THC, le varietà consentite e gli usi precipui cui destinare il prodotto, ossia quelli industriali ed agroindustriali.
Tutto ciò pone il legislatore di fronte ad un compito improcrastinabile: porre in essere tutti gli strumenti che rendano chiaro cosa si può e cosa non si può fare, chiarendo definitivamente tutti gli aspetti dubbi che stanno arrecando gravi difficoltà ad un settore, quello della canapa industriale, che rischia di venir menomato da una inaccettabile situazione kafkiana.